Il Salone Internazionale del Libro di Torino 2018: quattro incontri “postcoloniali”

Quest’anno il Salone Internazionale del Libro di Torino ha battuto tutti i record di affluenza. Anche io, a differenza degli altri anni, ho partecipato ogni giorno, dal 10 al 14 maggio. Ho così avuto modo di girare tra i vari stand, conoscere editori, autori, traduttori e chi più ne ha più ne metta. Soprattutto, ho avuto il tempo di assistere a molti dei numerosissimi incontri che si sono svolti all’interno del Lingotto. Giravo come un’anima in pena dal padiglione 1 al 4, senza dimenticare il Bookstock Village, a volte quasi correndo nel tentativo di incastrare due convegni irrinunciabili. Inutile precisare che ero diventata un’habituée della Sala Professionali, in cui si sono svolti gli incontri per me più importanti, come quelli dell’Autore Invisibile e quelli dedicati al mondo dell’editoria.

All’interno di quest’articolo, però, non voglio farvi una cernita di tutti gli incontri a cui ho partecipato, bensì parlarvi di quelli che intessono in qualche modo un rapporto con la tematica di questo blog. Come ad esempio quello in cui si è parlato di come tradurre la letteratura della diaspora, presieduto dall’immancabile Ilide Carmignani. O quello sulla frontiera, ovvero lo spazio immateriale attraverso cui si passa da una parte all’altra. Un passo e tutto muta: leggi, lingua, religione, cultura. Differenze tangibili che a volte ci fanno dimenticare che la frontiera è solo una costruzione mentale. Per finire, due incontri sulla religione. Se nel blog tento di affrontare tematiche legate alla letteratura postcoloniale di origine africana, non si può ignorare che in questo continente le religioni principali sono il cristianesimo e, soprattutto nella parte settentrionale, l’islam. Così ho voluto raccogliere due testimonianze che potessero introdurci all’islam e anche, perché no, farci capire in che modo si diventa radicali.

Durante il convegno “Tradurre la diaspora”, Ilide Carmignani ha dialogato con Fabio Cremonesi, Yasmina Melaouah e Claudia Zonghetti, tre traduttori che hanno tradotto opere appartenenti alla letteratura della diaspora.
Tutti sono stati d’accordo nell’affermare che il compito principale del traduttore che traduce un testo diasporico è quello di far affiorare le lingue e le culture minori, poco conosciute dal lettore occidentale. Del resto, questi testi si contraddistinguono proprio per la loro ibridità, in cui lingue e culture diverse si uniscono all’interno di un gioco di rimandi e di sperimentazione letteraria. Il traduttore deve quindi impegnarsi a trasporre la stessa varietà linguistica e stilistica, ponendo attenzione nel riportare gli elementi fuorvianti e non, al contrario, rendendoli di più facile accesso.

Fabio Cremonesi, che traduce dall’inglese, dallo spagnolo e dal tedesco, ci ha parlato della sua esperienza in quanto traduttore da quest’ultima lingua. Prima di passare agli esempi concreti, si è soffermato a parlare della storia dei cosiddetti “ospiti linguistici”, ovvero quegli scrittori che per i motivi più disparati scrivono in una lingua diversa da quella madre. In Germania si tratta di un fenomeno recente, con una sola eccezione: scrittori che, come Kafka, durante gli anni dell’Impero Austro-Ungarico, parlavano la propria lingua ma scrivevano con quella ufficiale dell’Impero. Anche alcuni degli “ospiti linguistici” che oggi vivono in Germania, di solito provenienti dall’ex Unione Sovietica, hanno deciso di adottare il tedesco come lingua di creazione letteraria. C’è, però, una differenza tra gli “ospiti della lingua” attuali e quelli dell’Impero Austro-Ungarico: se questi ultimi non si interrogavano sull’uso della lingua, gli scrittori odierni lo fanno, creando una nuova musicalità. Successivamente, Fabio Cremonesi ha posto come esempio il testo di Sasha Marianna Salzmann su cui sta attualmente lavorando. L’autrice, una russo-tedesca dalle origini ebraiche, nata nell’ex Unione Sovietica, è emigrata in Germania nel 1995 insieme alla sua famiglia per motivi politici. All’interno dell’opera il traduttore ha notato una sonorità che oscilla tra il tedesco e il russo, di cui a volte sono presenti parole in cirillico. Quindi, per rispettare la musicalità del testo, ha optato per diversi espedienti, tra cui lasciare delle parole in russo, come il nome dei cibi, in modo da farli gustare al lettore italiano attraverso parole “esotiche”.

Anche Claudia Zonghetti, traduttrice dal russo, ha messo a confronto una letteratura sovietica appartenente al passato con una più recente. In particolare, ci ha parlato della letteratura russa degli anni della Rivoluzione (1917-1920). In quel periodo, infatti, molti letterati sono fuggiti dalla Russia, dirigendosi in altre città europee. Questi autori, però, non si sono lasciati influenzare dalla lingua del Paese che li ha accolti, con la sola eccezione di Gajto Gazdanov. Quest’autore si trasferisce a Parigi proprio nel 1920 e, all’interno delle sue opere, scrive metà in russo e metà in francese, utilizzando, soprattutto nei dialoghi, termini appartenenti all’argot dell’Esagono. Successivamente, la traduttrice ci ha parlato di autori contemporanei che, come quelli tradotti da Fabio Cremonesi, hanno dovuto abbandonare la loro patria di origine, ma che si sono diretti verso il Caucaso. La differenza tra gli autori tradotti da Claudia Zonghetti e quelli tradotti da Fabio Cremonesi risiede nel fatto che i primi continuano a scrivere nella loro lingua madre, ovvero il russo, arricchendolo, però, di elementi caucasici. Si tratta di autori come Alisa Ganieva, che scrive in un daghestano contaminato da russo e arabo, o come Guzel’ Jachina, che scrive mescolando tataro, siberiano e russo. Claudia Zonghetti, per tradurre i loro testi, ha deciso di lasciare in lingua straniera i nomi dei cibi, degli abiti e i nomi degli spiritelli del folklore. Attraverso queste interruzioni nella lingua predominante del testo, la traduttrice spezza il filo della narrazione, rispettando il ritmo degli originali.

Yasmina Melaouah, traduttrice dal francese, ha fatto invece un discorso più generale, parlandoci del metodo con cui si approccia alla traduzione di testi diasporici. Esso consiste nel prendere in considerazione allo stesso tempo l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Ovvero, prima di iniziare a tradurre un testo, la traduttrice butta giù un progetto di traduzione che contenga le regole generali a cui sottostare durante la stesura della traduzione; successivamente, analizza ogni singolo caso, decidendo se le regole generali prestabilite debbano essere applicate o meno in quel punto. Yasmina Melaouah ci ha detto che, in genere, la lingua degli “scrittori ospiti” è una lingua marcata stilisticamente, quindi poco scorrevole. Nei testi di questi autori, precisa la traduttrice, si avverte una  forte letterarietà, dettata da una lievissima forzatura della lingua e della forma letteraria utilizzate, con lo scopo di far emergere la lingua madre che incalza su quella adottata.

Ilide Carmignani, alla fine dell’incontro, ha chiesto ai traduttori quali sono state le difficoltà maggiori incontrate durante il processo traduttivo. Per Fabio Cremonesi, la difficoltà più grande è stata quella di rispettare la musicalità dell’originale. Per Yasmina Melaouah, invece, ricreare una certa marcatezza linguistica. Per Claudia Zonghetti, infine, la difficoltà maggiore è stata quella di far emergere la differenza tra il russo e le lingue caucasiche, riuscendo nell’intento attraverso l’utilizzo di varie dislocazioni, ripetizioni e l’impiego della lingua del parlato.

Vorrei terminare la presentazione di quest’incontro con un concetto molto interessante illustrato da Fabio Cremonesi. Il traduttore ci ha spiegato che in tedesco Vaterland e Heimat sono due parole che si oppongono. La prima rappresenta la cosiddetta “patria di sangue”, il luogo in cui si è nati; mentre la seconda il “posto del cuore”, il luogo in cui si sceglie di andare a vivere. Sarebbe bello indagare qual è il rapporto che alcuni scrittori della diaspora intessono con la loro Vaterland  e la loro Heimat, sia nel caso in cui queste si oppongano, sia nel caso in cui, pur non opponendosi, essi siano comunque costretti ad abbandonarle.

Nel corso del seminario “No(d)i la frontiera”, Francesco Pacifico e Elena Stancanelli hanno intervistato Tommy Kuti e Vhelade, due musicisti italiani con origini africane. Durante l’incontro è stato ricordato come Valeria Della Valle, una linguista italiana, abbia sottolineato che l’italiano è una lingua sostanzialmente ibrida, che tende ad assorbire termini e modi di dire di altre lingue e culture. I conferenzieri hanno precisato, però, come purtroppo oggi l’italiano paia assimilare dalla lingua dei migranti solo parole che nella nostra cultura hanno una connotazione negativa, come burqa, Isis, Daesh. Eppure, andando controcorrente, lo scopo del loro incontro è stato quello di dimostrare che c’è un altro strumento in grado di far passare all’interno della nostra lingua parole con una connotazione positiva: la musica. Sempre di più sono infatti gli artisti italiani che hanno origini lontane, tra cui troviamo proprio Tommy Kuti, rapper bresciano con origini nigeriane, e Vhelade, nata a Milano da padre zairese e madre sarda. Entrambi gli artisti hanno superato la concezione di identità categorizzante all’interno delle proprie canzoni, dando vita ai due singoli “Afroitaliano” uno e “Afrosarda” l’altra. I musicisti, infatti, affermano di non sentirsi solo italiani o africani, ma, citando il testo della canzone di Tommy Kuti

Ma lei si sente più africano o si sente più italiano?
Afroitaliano, perché sono stufo di sentirmi dire cosa sono o cosa non sono
Sono troppo africano per essere solo italiano e troppo italiano per essere solo africano
Afroitaliano, perché il mondo è cambiato

Al di là dell’influenza linguistica che i migranti esercitano sull’italiano, si è parlato molto proprio del concetto di straniero. I due cantanti hanno ammesso che, purtroppo, spesso capita loro che in Italia li facciano sentire stranieri, mentre all’estero, quando dicono di essere italiani, nessuno ha altro da aggiungere. Secondo Vhelade, la discriminazione esistente nel Bel Paese deriva da un’instabilità identitaria dell’Italia stessa. L’Italia, infatti, a differenze di altri Paesi, è uno Stato recente, che deve ancora assestarsi dopo l’Unità d’Italia. Esso si presenta come un insieme di staterelli, ognuno con la propria lingua e la propria cultura. Però, oggi, proprio grazie alla musica e all’arte in generale, ha sottolineato ancora l’artista, questi staterelli si stanno conoscendo tra loro, livellando le inimicizie.

Attraverso la presentazione di due libri si è, infine, parlato di religione e di radicalizzazione. La prima è stata quella di Gabriele Del Grande e del suo libro Dawla durante il convegno “Ascesa e caduta dello Stato Islamico”. La seconda è stata quella di Maajid Nawaz, autore di Radical, durante l’incontro “Radical, il mio viaggio dal fondamentalismo islamico alla democrazia”.

Gabriele Del Grande è il fondatore di Fortress Europe, un blog che si prefigge di essere “un osservatorio sulle vittime della frontiera, ed è finito per diventare un viaggio lungo ormai sei anni”. Dawla, pubblicato in Italia quest’anno, è un’inchiesta di giornalismo narrativo raccontato dal punto di vista interno di chi si è arruolato nello Stato Islamico. Il giornalista, per raccogliere il suo materiale, si è avventurato dal Kurdistan iracheno fino alla Turchia, dove è stato arrestato, intervistando settantaquattro persone per un totale di duecento ore di registrazione. Nel libro vengono raccontate principalmente le storie di cinque persone, mentre le altre fanno da sfondo, con lo scopo di farci fare un viaggio all’interno dell’ideologia dello Stato Islamico. Secondo il pubblico, l’aspetto interessante del libro è che si riesce a simpatizzare con i personaggi nonostante siano estremisti, perché non ci sono netti confini tra buono e cattivo. In fondo, ci ricorda il giornalista, siamo tutti semplicemente umani.

Vorrei però soffermarmi soprattutto sull’incontro con Maajid Nawaz, perché mi ha illuminato su una parte di storia che non conoscevo molto bene e che vorrei condividere con voi.

Maajid Nawaz è un anglo-pakistano, musulmano, che a sedici anni è diventato fondamentalista. Il suo libro, Radical, racconta la storia che lo ha portato dal fondamentalismo alla democrazia. L’organizzazione a cui si era legato da adolescente non era, però, terrorista. Non essendo un’organizzazione violenta, rispettava le leggi vigenti, anche se era islamista e radicale nei suoi propositi politici.

I motivi per cui Maajid Nawaz si era legato a questa organizzazione sono fondamentalmente due: da un lato, durante quel periodo era stato vittima di razzismo; dall’altro, era rimasto profondamente indignato per il genocidio di Srebrenica, una città musulmana in una regione a maggioranza serba della Bosnia. Lì, nel 1995, ottomila bosniaci musulmani sono stati uccisi, dopo le varie tensioni nate nel 1992, quando la Bosnia aveva dichiarato la sua indipendenza dalla Iugoslavia. I miliziani serbo-bosniaci e i regolari serbi si sono schierati contro i serbi musulmani praticando quella che da allora è diventata famosa come “la pulizia etnica”, un termine coniato dagli stessi leader serbi.
Se in Inghilterra Maajid Nawaz era stato vittima di razzismo per la sua appartenenza etnica, in Bosnia il genocidio era avvenuto per una questione religiosa. Questo, unito al fatto che il genocidio venne trattato con molta superficialità dalla stampa, spinse Maajid Nawaz a diventare radicale.

Un altro aspetto illuminante dell’incontro è stato quello del chiarimento delle varie terminologie. Difatti, spesso facciamo confusione tra i vari termini, pensando che, ad esempio, islamista e jihadista siano la stessa cosa o, peggio ancora, che i musulmani siano anche di conseguenza islamisti. In realtà non è così. Maajid Nawaz ci ha spiegato che gli islamisti, perlopiù adulti, vorrebbero imporre una versione dell’islam sulla società, sono radicali, ma non terroristi perché non fanno uso di violenza. Gli jihadisti, invece, sono composti principalmente da giovani che usano la forza e la violenza per imporre l’islamismo: sono quindi terroristi. Per finire, i musulmani sono semplicemente dei credenti dell’islam, religione monoteista che venera Allah.

Tirando le somme, mi pare che attraverso questi incontri si siano toccati temi diversi che vertono, però, intorno a un unico fine: dimostrare che le differenze possono essere una ricchezza. Per i traduttori soprattutto una ricchezza linguistica. Fabio Cremonesi, Claudia Zonghetti e Yasmina Melaouah attraverso il loro intervento ci hanno dimostrato che quando due lingue e culture si uniscono all’interno di un’opera letteraria si viene a creare un testo difficile, a cui prestare molta attenzione e in cui anche la creatività del traduttore gioca un ruolo preponderante. Sicuramente, poi, le differenze portano a una ricchezza culturale, attraverso uno scambio reciproco che porta alla creazione di nuove espressioni artistiche, come il video di “Afrosarda”, in cui gli usi e costumi sardi e africani si uniscono in una mistura di forme e colori, oltre che di suoni. Prima di poter arrivare allo scambio, al reciproco arricchimento, si deve però passare per il superamento della diffidenza e l’accensione della curiosità. In questo modo non solo si può guadagnare qualcosa, ma si evita anche di cadere in falsi miti e luoghi comuni che, attraverso letture e canzoni giuste, potrebbero essere facilmente sradicati.

Margaret Petrarca

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