Le rivelazioni della camera buia – Francis Bebey

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Francis Bebey

 LE RIVELAZIONI DELLA CAMERA BUIA

Traduzione a cura di Margaret Petrarca

 

Le rivelazioni della camera buia - Francis Bebey

 

© Il diritto d’autore di questa traduzione è protetto dall’art. 4 della legge 22 aprile 1941, n. 633 e dall’art.7.

Francis Bebey è nato il 15 luglio 1929 a Douala, in Camerun, ed è morto il 28 maggio 2001 a Parigi. È stato un artista, musicista, scrittore e giornalista.

Il suo primo romanzo Le fils d’Agatha Moundio (1968) ha vinto il Grand Prix littéraire d’Afrique noire nel 1968. Ha poi scritto altri romanzi, tra cui La poupée ashanti (1969), Le roi Albert d’Effidi (1976) e L’enfant pluie (1994) che ha vinto il Prix Saint-Exupéry, e le raccolte di racconti Embarass et Cie (1968) e Trois petits cireus (1972). Ha pubblicato anche poemi e il saggio Musique d’Afrique (1969). Nel 2013 ha ricevuto il Grand Prix de la Mémoire dei GPAL (Grands prix des associations littéraires).

Come musicista, ha creato un curioso «etno-jazz», che puoi ascoltare qui.

Il racconto Les révélations de la chambre noire è stato pubblicato all’interno del volume Embarras et Cie (Francis Bebey, Editions CLE, 1968).

Ringrazio la casa editrice camerunese Editions CLE per avermi dato la possibilità di pubblicare la traduzione del racconto sul mio sito.

Le rivelazioni della camera buia

«Quando c’è un funerale non specchiarti, hai capito? Non specchiarti, perché se ti specchiassi nel momento esatto in cui si seppellisce un morto, vedresti la sua anima salire in cielo. E nove giorni dopo moriresti anche tu.»

La mia sorella maggiore mi aveva svelato questo segreto per farmi vivere a lungo. Io gliene sono sempre stato riconoscente, seguendo alla lettera i suoi consigli, la cui importanza è evidente a tutti. Ogni volta che voglio specchiarmi mi assicuro prima che non ci siano funerali nelle vicinanze, né altrove nel mondo. Siccome sono certo che in alcune ore del giorno non si seppellisce nessuno da nessuna parte, mi specchio, abbastanza a lungo da essere certo di averne preso la mia razione giornaliera.

Sono convinto che, quando nel mio bagno sono le sette del mattino, non ci sia alcun rischio di vedere delle anime salire in cielo.

Una volta avevo la congiuntivite e non riuscivo a leggere bene l’orologio. Invece di prepararmi alle sette, iniziai a radermi alle otto. Quando mi accorsi dell’errore fatale che avevo commesso, iniziai a contare i giorni. Non appena l’ottavo giorno arrivò, fui colto da una febbre così alta che venni ricoverato. Non potete capire l’effetto che può farvi sapere di morire il giorno dopo, quando tutti vi vedono in buona salute il giorno prima. Dovete rendervi le cose più semplici, e far dire dopo il vostro ultimo respiro che siete morti a causa della febbre, o qualcosa del genere. Io avevo scelto una bella tifoide, che mi fece restare in ospedale per più di un mese.

Come mai non sono morto nove giorni dopo il mattino in cui avevo visto le anime salire in cielo? Di certo, il caso non ha fatto nulla per sopprimere i funerali nel mondo in un momento in cui di solito ce ne sono sempre. E, di certo, io non ho letto male l’ora. Quindi perché non sono morto? Be’, non penso neanche che sia stato l’ospedale a salvarmi. Credo soltanto che lo stregone che avrebbe posseduto la mia anima allo scoccare del nono giorno abbia avuto pietà di me, ed è per questo che mi ha lasciato in vita fino all’istante in cui scrivo queste righe.

Credetemi, non è una storia folle quella che vi racconto. Del resto, se vi parlo di tutto questo è perché so che rispettate le mie convinzioni, e perché sapete bene che credere alla stregoneria non vale meno di altro.

Qualche anno fa ebbi la fortuna di vivere vicino a uno stregone. Mbété aveva quattro occhi: due visibili a tutti, e altri due che utilizzava solo nel mondo invisibile degli stregoni. Con quel secondo paio d’occhi poteva vedere il presente e il passato di tutti. Abitare nel vicinato di quel potente era per noi una grande fortuna, perché ci permetteva di non temere l’arrivo di sventure. Mbété conosceva tutto quello che ci sarebbe successo e, soprattutto, sapeva cosa occorreva fare perché non ci accadesse niente di grave. Mia zia lo aveva fatto diventare il nostro medico di famiglia. Io ne ero felice dicendomi che, se non ci fosse stato Mbété nei paraggi, ogni giorno mi avrebbero obbligato a ingoiare compresse di clorochina e a bere un cucchiaio di chinino per proteggermi dalle malattie. Con Mbété non temevamo l’arrivo di malattie, e quindi non c’era bisogno di prevenirle.

La cosa mi sembra naturale. Mio nonno ha vissuto a lungo, da quanto dicono. Ha raggiunto i cinquant’anni, si dice con fierezza nella mia famiglia. Eppure non ha mai preso una compressa. Anche lui aveva avuto accanto un uomo come Mbété, che vegliò sulla sua salute e lo prevenne da ogni pericolo. L’uomo non lo aveva avvertito della sua morte prossima, altrimenti mio nonno avrebbe dato allo stregone il numero necessario di monetaria moneta per farla allontanare.

… Quando Mbété non aveva più nulla da mangiare, faceva una capatina a casa di mia zia e le raccontava il sogno che aveva fatto la notte precedente: un treno precipitato in un profondo burrone, ma nessun morto tra i viaggiatori.

Era molto strano che un treno precipitasse in un profondo burrone senza vittime. C’era un pericolo nell’aria e Mbété pensava di aver visto un membro della nostra famiglia nel treno proprio nel momento in cui questo si lanciava nel vuoto.

Così, la paura si impadroniva di mia zia, perché lei non voleva che ci capitasse qualcosa a causa di quel treno precipitato senza vittime in un profondo burrone. Il sogno di Mbété era molto inquietante. Mbété doveva “esaminarci” immediatamente, me, mia sorella, mia cugina Kidi, e anche Minda, la figlia adottiva di mia zia.

«Li devi visitare, Mbété», diceva mia zia, «li devi esaminare.»

L’uomo non se lo lasciava ripetere due volte. Tornava subito a casa per cercare le sue cose, contento al pensiero di poter mangiare quel giorno. È un bel mestiere quello di fare sogni stravaganti…

Qualche istante dopo Mbété era di ritorno con tutto il suo materiale: uno specchio rotondo che copriva sempre con cura con un telo bianco, una piccola bacinella smaltata piena d’acqua – ma, a detta di Mbété, non si trattava di semplice acqua –, un grande sasso bianco, un po’ di peperoncino e di sale da cucina, e qualche altro ingrediente di cui sarebbe inutile cercare il nome in italiano. Sua figlia lo seguiva, portando una sedia di legno di cui doveva per forza servirsi se voleva che i suoi “esami” avessero buon esito. La ragazzina posava la sedia nel bel mezzo della camera di mia zia, e poi se ne andava, senza aspettare l’inizio delle operazioni.

La camera di mia zia non aveva finestre, quindi ci faceva buio tutto l’anno. Mbété entrava e accendeva una candela. Restava dentro da solo per un po’, poi ci chiamava. Quindi entravamo, mia zia per prima. Una volta all’interno tutto era già pronto. Il mago aveva disposto i suoi affari nel solito modo. Ci diceva di sederci, ma siccome il letto di mia zia non era molto grande, il posto migliore per accomodarci era il pavimento fresco di terra battuta.

Da quel momento nessuno aveva il diritto di parlare, solo mia zia poteva fare qualche domanda. Era troppo preoccupata, e aveva paura che l’altro si sbagliasse o dimenticasse di fare il necessario per salvarci la vita.

Non si prendevano mai abbastanza precauzioni.

Una volta entrati in camera, illuminata dalla luce della candela, Mbété chiudeva la porta e, dopo aver pronunciato parole incomprensibili su tutti noi con l’intento di scacciare gli ultimi spiriti maligni che non avevano ancora capito che non c’era nulla da fare nei paraggi, l’uomo ritornava. Si avvicinava a noi, ci guardava dritto negli occhi senza dire niente, e sentivamo che ci insufflava qualcosa. Eravamo pronti per essere curati. Solo allora la cerimonia poteva avere inizio.

Il mago prendeva un po’ di sabbia, sabbia finissima, bianchissima, da un sacco di tela bianca e lo versava sul suolo creando un cerchio. Piazzava in mezzo al cerchio la bacinella piena d’acqua che non era acqua di rubinetto.

« Ash…ash…ash…. », diceva, incrociando per tre volte le braccia al di sopra della bacinella. Poi ci s’inginocchiava davanti, e pronunciava una preghiera per il suo dio.

Mbété era bifronte nella vita tutti i giorni come in quella… spirituale. A un certo punto aveva deciso, come molti, di andare a elemosinare il battesimo cristiano. Quando un uomo è battezzato non viene più scambiato dagli altri per una pecorella smarrita; al contrario, merita il regno celeste, e questo costituisce a volte una seria raccomandazione. Ma quando Mbété andò a chiedere a un pastore di battezzarlo, quest’ultimo gli ricordò che lui, Mbété, credeva nel diavolo, che tutti lo sapevano in città, e che questo mal si addiceva alla nuova fede a cui voleva dedicarsi. Doveva scegliere: restare servitore del diavolo e accettare di andare all’inferno una volta morto, oppure entrare nel corpo dei nuovi re dei cieli, e in quel caso, abbandonare la magia. Mbété aveva riflettuto un istante, poi aveva deciso di rompere col diavolo. Il pastore si era congratulato con lui, e dopo lo aveva battezzato come andava fatto. Ossia, il vecchio Mbété si era messo a frequentare i corsi di catechismo in compagnia di bambini che avrebbero potuto essere suoi nipoti. Poi il giorno del battesimo era arrivato, e Mbété aveva ripulito la sua anima da tutti i peccati che la sporcavano, di cui la magia non era la più trascurabile.

Ma la fame è stata inventata dal diavolo. Se ne serve come mezzo per corrompere gli uomini che gli resistono e lo evitano per davvero, per davvero… Così il diavolo mandò la fame da Mbété.

E Mbété si ricordò che prima del battesimo aveva fatto solo lo stregone. Che cosa avrebbe potuto fare? Cercare un lavoro? O fare l’elemosina? Ciò che complicava ulteriormente la situazione era il ricordo di quello che gli aveva raccontato il nonno quando era ancora in vita. Il nonno di Mbété non raccontava, quando era in vita, di essere stato tra quelli che per primi avevano sentito parlare di bianchi nel paese, quando i primi “uomini con le orecchie rosse” avevano fatto la loro apparizione nel golfo di Guinea? Mbété discendeva direttamente da quei nobili che per primi avevano visto i bianchi nel mio paese. Chiedetegli quindi di lavorare o di fare l’elemosina ogni giorno. Le persone del mio paese hanno tutte un sesto senso, quello dell’onore e della pigrizia, spinto fino alla ricercatezza. Quando la fame si fece sentire, Mbété si ricordò di tutto questo, e la logica gli impose di riconsiderare subito la decisione che aveva preso, davanti al pastore, di mandare il diavolo al diavolo.

Fu così che arrivammo al momento in cui eravamo nella camera illuminata dalla candela accesa dallo stregone.

«Ash…ash…ash…», fece Mbété, incrociando per tre volte le braccia al di sopra della bacinella piena d’acqua che non era acqua di rubinetto.

Poi gridò ancora non so quali ingiurie contro le persone che volevano farci del male. Prese il  grosso sasso e lo immerse nell’acqua della bacinella pian piano, facendo ben attenzione che i cerchi creati al contatto con l’acqua fossero abbastanza definiti da essere contati. E li contò. Uno, due, tre… nove! Soffiò sulla candela e l’oscurità scese all’improvviso su di noi, anche se fuori erano solo le dieci del mattino. Silenzio assoluto per qualche minuto. Poi Mbété iniziò a rantolare. Dopo un po’ sembrava quasi che dormisse, che russasse, e che ci avesse dimenticati.

Dimeticarci!… Che idiozia!… Dimenticarci significava non poter mangiare per quel giorno. Che idiozia!

Avevamo cominciato ad abituarci all’oscurità della camera e riuscii a vedere Mbété in modo sempre più distinto. Non ce l’avevo con lui per aver spento la candela, perché era la sua candela, e poteva farne ciò che voleva. E poi, uno stregone ha sempre bisogno dell’oscurità per vedere bene.

A quel punto Mbété prese lo specchio dal brandello di tela bianca che lo avvolgeva, e se lo mise davanti agli occhi. Per un istante sembrò che si specchiasse nell’oscurità, ma sapevo che vedeva ognuno di noi in quello specchio, porta aperta sull’invisibile.

«Vedo un uomo molto grosso», disse, «un uomo che non abita molto lontano da casa vostra, a cui non piacete per niente, credetemi. L’uomo sta accendendo un fuoco, un grande fuoco, in cui ha intenzione di bruciare qualcosa…»

«Come “qualcosa”…? E se volesse bruciare uno di noi in quel “grande fuoco”?», chiese mia zia spaventata. Sapeva di chi poteva trattarsi. Abitava nel vicinato, a circa duecento metri da noi, e tutti dicevano che aveva qualcosa che non andava, né nello sguardo né nel cuore. Si trattava del grosso Elimbi, accusato più volte per la morte di alcune persone del vicinato.

Non mi piaceva incontrare Elimbi per strada.Mi guardava in modo strano, e diventava garbato e paterno quando mi parlava. Com’era possibile? Quell’uomo, di cui tutti dicevano che aveva venduto l’anima del padre, di tre dei suoi fratelli di stesso padre e di stessa madre e di una delle sue sorelle… quell’uomo, che sicuramente non ci voleva bene, si mostrava sempre sorridente quando lo incontravo. Di sicuro per vendere la mia anima facilmente, il giorno in cui avesse finito i membri della sua famiglia.

Il pancione di Elimbi non si era innestato sull’uomo come un semplice parassita su un corpo: l’uomo aveva quel pancione perché, si diceva, aveva mangiato dei feticci che gli avevano gonfiato l’addome. Ad ogni modo, non vi augurerei mai di vivere nel vicinato di uno stregone così temibile.

Quando Mbété nel suo specchio magico vide un uomo grosso, tutti pensammo che si trattasse di Elimbi. Che per di più si fosse messo a bruciare qualcosa, poteva rassicurarci men che meno. Ora capite la domanda angosciata di mia zia.

«Come “qualcosa”…? E se volesse bruciare uno di noi in quel “grande fuoco”?»

«Lasciami vedere, Naki»,rispose Mbété. «Lasciami vedere, devo sapere dove vuole andare a parare con quel fuoco… Aspetta un po’… Vedo che è rientrato in casa, di sicuro per prendere la cosa che vuole gettare nelle fiamme… Aspetta, e ti prometto che se è uno di voi a cui ha intenzione di dare fuoco, non lo farà di certo oggi…»

Nell’oscurità della camera ognuno di noi distingueva gli altri, e ognuno di noi si chiedeva cosa sarebbe accaduto. Eravamo impossessati dalla paura. Io tremavo da capo a piedi, perché ero certo che se Elimbi volesse dare fuoco a uno di noi, sarei stato sicuramente io. Chi altri poteva essere? Ero il solo che Elimbi incontrasse così spesso, e ora capivo perché negli ultimi tempi si trovava sempre lungo la mia strada.

Ma perché restava tutto quel tempo in casa, senza uscire subito con quel “qualcosa” che aveva intenzione di bruciare? Cosa stava…

– Oh, Naki, è uscito dalla casa… è potente questo stregone, sai? Oh! Ma cosa vedo mai?… Mi sembra che stia lottando con qualcuno che si agita… Ma, sai, è così potente questo stregone che mi impedisce di vedere cosa sta succedendo esattamente. Oh! Naki, passami il brandello di tela bianca che è caduto qui vicino a me, devo asciugare il vetro per vedere un po’ meglio… In fretta, Naki, in fretta… ma soprattutto, non avvicinarti troppo allo specchio, te ne prego, è molto pericoloso…

Mia zia fece macchinalmente tutto quello che le chiedeva il veggente, e indietreggiò subito dopo avergli passato il brandello di tela bianco.

– Guarda, Mbété, guarda bene… È uno di noi?

Tutta la sicurezza di mia zia era sparita. Poco a poco, il terrore rimpiazzava la paura. Mbété pulì lo specchio con un gesto della mano, e subito cacciò un grido orribile.

– Oué-è-è-è-è-è… Naki, non vedevo bene prima… Oh! Non ci posso credere. Cosa gli hai fatto? Perché vuole darti fuoco?…

– Cosa? Quindi sono io che lotto contro lo stregone e il fuoco?

– Sì, non mi sbaglio, sei tu… ti ha cacciato dalla casa…

– Oh, bambini miei, avete sentito? Sono io, vostra madre, che vuole gettare nel fuoco…

– Oh, la mia mamma, la nostra mamma, si mise a piangere la piccola Minda.

Ed ecco che urlavamo e piangevamo alla notizia che mia zia sarebbe stata gettata nel rogo appiccato dallo stregone. Sapevamo perfettamente cosa significava: se Elimbi fosse riuscito a dare fuoco a mia zia in quel momento, avremmo dovuto iniziare a contare i giorni e, allo scoccare del nono giorno, avremmo dovuto accompagnare zia Naki verso la sua ultima dimora… La sola persona che avrebbe potuto evitare tutto questo era Mbété.

– No, Naki, non ti lascerò così tra le mani di quest’individuo. Sei una brava donna, non morirai in questo modo, come se non avessi nessuno per difenderti… resisti, dammi solo il tempo necessario per finire i preparativi…

Noi continuavamo a piangere, piangere.

Mbété fece un balzo e si diresse verso la porta, come se volesse aprirla. Al contrario, la chiuse meglio. Quella porta non doveva assolutamente essere aperta, altrimenti sarebbero entrati gli spiriti maligni. L’uomo tornò in fretta così come se n’era andato, e accese rapidamente delle erbe secche che aveva preso dal suo piccolo sacco. La fiamma viva durò solo per qualche secondo, il tempo di abbagliarci un po’, per poi creare un’oscurità intensa e piena di odore di piante bruciate.

Spalancai gli occhi per riuscire a vedere meglio quello che Mbété avrebbe fatto per salvare mia zia. Prese una grande foglia di tabacco e rullò in fretta un enorme sigaro. L’accese e si mise a fumare, in silenzio… Poi si impadronì di nuovo dello specchio e si mise ad “esaminare” quello che vi accadeva. Io non vedevo cosa stava succedendo. Non vedevo quello che accadeva nello specchio magico, ma riuscivo a intravedere il viso di Mbété, illuminato di tanto in tanto dal sigaro tirato a pieni polmoni. Con una mano teneva lo specchio, mentre con l’altra faceva dei grandi disegni nel vuoto, come se indicasse una tenda, un muro, non so cosa. Ci disse infine quello che desideravamo sapere: lo stregone Elimbi era entrato in casa e aveva lasciato mia zia vicino al grande fuoco. Così lui, Mbété, stava cercando di separare lo stregone dalla sua vittima attraverso un muro che stava disegnando nel vuoto.

Questo ci aveva quasi consolati, ma sarebbe stato troppo semplice, come potete immaginare. Non ci si disfa così facilmente di un avversario potente come Elimbi.

– Oh! Che sfortuna, sta tornando, Naki, e cerca di abbattere il muro che ho costruito tra te e lui… ma sono pronto adesso e combatterò come non ha mai visto prima… Bene! Avrà quel che cerca… tanto peggio per lui… ma devi aiutarmi, Naki, non mi devi lasciare solo nella battaglia.

– Cosa devo fare, Mbété?

– Innanzitutto, dammi… ahi! Attenti, potrebbe vedermi… oh! Ti sta attaccando, Naki, sta per demolire il muro, sta per demolire il…

– Resisti, Mbété, non abbandonarmi, resisti. Cosa devo fare?

– Oh! Sì, resisto, ma mi devi dare in fretta una banconota da cinquanta franchi, falla scivolare subito sotto la bacinella piena d’acqua. Poi prendi qualche goccia d’acqua e pulisciti il viso. E voi, bambini, avvicinatevi all’acqua e lavatevi il faccino.

Via un biglietto da cinquanta franchi!

Ci avvicinammo alla bacinella piena d’acqua che non era acqua di rubinetto, e ci lavammo il faccino.

Mbété continuava a fare grandi gesti nel vuoto e a guardare nello specchio magico. Poi esclamò all’improvviso:

– Che sfortuna, lo stregone mi ha visto… e ora posso rivelarvi il suo nome. È…

– Elimbi, disse subito mia zia.

– Ora che mi vede, continuò Mbété, devo fare di tutto per intimidirlo. Così ti lascerà in pace… Ascolta, Naki, prendi un’altra banconota da cinquanta franchi e falla scivolare sotto la bacinella. Te la stai passando male, sai? Devi aiutarmi a farti uscire di lì…

Mia zia fece scivolare i soldi sotto la bacinella e si lavò la faccia.

Noi avanzammo per lavarci il faccino e subito tornammo ai nostri posti.

Via due biglietti da cinquanta franchi…

La lotta contro lo stregone non era ancora finita.

– Lascia in pace questa donna! Elimbi, ti dico di lasciarla in pace, gridò all’improvviso Mbété, il nostro salvatore. Lascia in pace questa donna, lasciala in pace, cosa ti ha fatto? Non hai mai incontrato una donna più buona di lei, e ti permetti di vendere la sua anima?

C’erano delle pause durante le quali Mbété ascoltava le risposte dello stregone che vedeva nello specchio. La loro conversazione durò a lungo, fino a quando i due potenti si misero infine d’accordo perché mia zia venisse liberata per la somma di trecentocinquanta franchi che sarebbero andati a Mbété.

E quando sette banconote da cinquanta franchi furono sotto la bacinella piena d’acqua che non era del rubinetto, il combattimento ebbe fine. Mia zia tirò un sospiro di sollievo quando Mbété le annunciò che il grande stregone aveva accettato di lasciarla in vita… Anche noi tirammo un sospiro di sollievo.

Ma non era finita lì.

Il pericolo era scampato, ma questo non significava che non si sarebbe ripresentato. Mbété doveva preparare un rimedio con il quale avremmo potuto proteggerci per uno o due mesi. Per preparare questo medicinale chiedeva la modica cifra di cento franchi.

Mia zia aveva tre giorni per trovare quella somma.

Era finita, per adesso.

Mbété raccolse le sue cose, senza dimenticare le sette banconote da cinquanta franchi, e un vecchio amico, sparito da più di sette ore, ritornò: il sole.

Penso sia grazie a Mbété se oggi sono ancora vivo.

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