Che cos’è la letteratura postcoloniale per un traduttore?

La letteratura postcoloniale può essere descritta come l’insieme di tutte quelle opere letterarie realizzate da autori provenienti da vecchie colonie, che vogliono denunciare, in un modo o nell’altro, la storia coloniale. I testi in questione vengono scritti in lingua francese, inglese, spagnola e portoghese da autori di origini africana, indiana, indocinese, caraibica, sudamericana, ma anche canadese, neozelandese e australiana. Essi trattano principalmente di ricerca identitaria, migrazione, esilio, e problemi legati al meticciato e al razzismo.

Andando al di là delle definizioni, qual è il rapporto che si instaura tra i testi postcoloniali e coloro che li producono e ne fruiscono, o meglio, autori e lettori?

Il loro rapporto è, per così dire, dualistico.

Da un lato, esso è influenzato dal messaggio racchiuso nel testo. Infatti, gli autori che trattano di argomenti legati alla colonizzazione e al postcolonialismo vogliono prima di tutto denunciare l’atto egemonico che il loro Paese e il loro popolo hanno subito. Vogliono riscattarsi da quello che è stato loro imposto per dare voce alla loro identità, che, dopo la colonizzazione, è sicuramente mutata: la ricerca identitaria deriva proprio da questo, dal manifestarsi di un’ibridità in cui l’autore e i suoi personaggi devono ancora riconoscersi. Vogliono liberarsi dai giudizi che sono stati incollati loro addosso come etichette e indagare non solo la propria identità, ma anche come questa si inserisce nel mondo, nei nuovi schemi sociali e geopolitici che si sono formati dagli anni dell’indipendenza in poi. Il lettore, che si trova a leggere un testo simile, in cui percepisce la ribellione dell’autore e dei suoi personaggi, non può che condividere le emozioni della voce narrante, emozioni quali rabbia, frustrazione, confusione, ma anche ribellione, curiosità ed eccitazione per una realtà sempre in divenire.

Dall’altro, non dimentichiamoci che non ci troviamo di fronte a trattati politici o economici, se non in maniera del tutto trasversale, ma davanti a un testo letterario. Questo significa che, al di là del messaggio che racchiude, il testo vuole raccontarci una storia, che non è fatta solo di oppressione e ribellione. In questa, come in tutte le storie, si possono vivere amori, amicizie, ambizioni personali o professionali, e chi più ne ha più ne metta. Soprattutto, la letteratura è una forma d’arte che gioca con la lingua, nelle sue più disparate forme letterarie, di registro, di musicalità. L’autore è consapevole della sua creazione e il lettore apprezza il testo al di là del messaggio racchiuso o della storia narrata. Lo apprezza in quanto opera d’arte.

Qual è, invece, il rapporto che il traduttore instaura con la letteratura postcoloniale?

Innanzitutto, la dualità di cui parlavo precedentemente mi pare essere ancora più ambivalente per un traduttore: la rottura tra contenuto e forma è ancora più profonda.

Il lettore vive il testo nella sua continuità: il contenuto e il contenitore di un brano gli appaiono completi e indivisibili. L’autore, producendo arte in modo più o meno programmatico, realizza un’opera che vive dall’interno, in cui l’oggettività viene meno. Non potrà vivere fino in fondo, quindi, il dualismo del proprio scritto.

Il traduttore, invece, deve analizzare il testo. Prima, da lettore, ne assorbe il contenuto e poi, da chirurgo, ne sviscera il contenitore. Dal momento che il contenuto sarà il prodotto di un complicato processo frutto della colonizzazione, il traduttore non riuscirà a capacitarsi di come quest’ultima abbia potuto dare vita a un contenitore tanto fiorente. Egli si rende conto che ciò che apprezza di più di quel testo è quello che deriva direttamente dall’egemonia, dal sopruso: una cultura e una lingua che si impongono su altre. La lingua di queste opere è spesso ricca, rigogliosa, succulenta. Ed effettivamente, essa è tale proprio perché il contatto tra la lingua e la cultura del colonizzatore e quelle del colonizzato ha portato alla nascita di una terza lingua, frutto di unione e rivolta tra le prime due originarie. Sarebbe consolatorio, per la morale del traduttore, pensare che quest’unione sia stata spontanea e figlia di uno scambio. Purtroppo, ciò che si nasconde dietro l’ibridità letteraria di questi testi è lungi dall’essere tale. Al contrario, essa è figlia di violenza e di soprusi.

Forse, ciò che può davvero consolare la morale del traduttore è che la cultura dominata non è rimasta inerte al sopruso. Al contrario, l’antropologia ci insegna che una volta che due culture si incontrano, a prescindere dal tipo di incontro, esse si influenzano reciprocamente, appropriandosi in modo del tutto personale di quella dell’altro. Quindi, i colonizzati hanno realizzato una presa di possesso delle culture e delle lingue che venivano loro imposte, hanno dato loro nuove forme, le hanno fatte diventare un’altra cosa. La lingua, in particolar modo, ha cambiato ritmo e sonorità, ha acquisito una musicalità inaudita e ha accolto le differenze: a livello fonetico, morfologico, lessicale e a volte persino sintattico. Hanno, insomma, creato una nuova lingua a partire, sì, dall’egemonia, ma ribattezzandola, facendola diventare una loro materia prima da modellare e attraverso cui ribellarsi.

Quindi, in definitiva, che cos’è la letteratura postcoloniale per un traduttore?

Principalmente, una sfida. Soprattutto per il traduttore italiano. L’Italia, rispetto a Paesi come la Francia o il Regno Unito, ha una storia coloniale di dimensioni molto ridotte. Ciò significa che, a livello di meticciato linguistico, l’Italia non ha molto da offrire ai traduttori, che devono riuscire a ricreare la stessa ibridità linguistica all’interno del testo di arrivo senza che essa esista nella loro lingua (se non si ritengono adatte per questo tipo di traduzione le varietà regionali e di registro del nostro Paese). Quindi, se la traduzione è sempre una sfida, nel caso dei testi postcoloniali, soprattutto quelli che giocano con l’identità linguistica, essa diventa un vero e proprio cubo di Rubik, in cui, invece di spostare i tasselli per realizzare una faccia dallo stesso colore, occorre creare un’alternanza di colori prestabilita per ogni tassello.

Non meno importante, la letteratura postcoloniale per un traduttore è un impegno politico e sociale. Certo, la letteratura è sempre lo specchio di una società, e i messaggi che contiene e veicola sono spesso legati a fatti storici e sociali, di cui il traduttore si prende la responsabilità nel proprio Paese nel momento in cui traduce un’opera. Nel caso della letteratura postcoloniale questa responsabilità diventa ancora più forte dal momento che, traducendola, il traduttore aderisce in qualche modo ai moti di denuncia e di ribellione che le appartengono intrinsecamente.

Margaret Petrarca 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *